Ti è mai capitato di avere un collega carismatico? Quello che quando c’è un lavoro da fare riesce a sprigionare energia e motivare tutti? Se riesce, pensi sia figo. Se non riesce, pensi che è il tizio che si sta sbattendo troppo, e per ottenere cosa, poi?
Un amico che ti sprona in ogni situazione, anche quando magari vorresti solo un orecchio che ascolta, e nessun consiglio.
Ma nello sport? Nello sport è diverso.
Lo sport è un microcosmo in cui ci sono certezze: regole e regolamenti.
Una squadra di basket sarà sempre composta da 5 persone in campo, i tempi avranno quella durata, i tiri da una certa distanza dal canestro varranno tre punti come per una squadra come per un’altra.
Sembrano ovvietà, ma è questo che permette alla mentalità sportiva di essere molto semplice, perché le possibilità sono due: vincere o perdere. Un mondo binario, in cui una terza opzione non esiste mai.
Ma SPORT e VITA sono due cose diverse, vero?
E guardando The Last Dance, lo straordinario documentario sulla storia dei Chicago Bulls negli anni ’90 del ventesimo secolo e in particolare su Michael Jordan, si possono avere due reazioni, non in contraddizione tra loro:
– Provare un’enorme ammirazione per il Jordan sportivo, in grado di realizzare imprese mai più ripetute da nessun altro, provocando un consenso attorno a sé di portata globale e che eccedeva l’ambito meramente sportivo……e pensare che Michael Jordan ti sta veramente sul cazzo.
Che non lo inviteresti a cena, che non lo presenteresti agli amici. Che non ci mangeresti neanche un panino all’autogrill per la durata media di una sosta all’autogrill, cioè brevissima.
Sport e vita non sono la stessa cosa. Cosa abbia sacrificato di personale Jordan è chiaro solo in parte da quel finale di episodio in cui con la voce rotta dalle lacrime chiede un “break” (anche se vediamo chiaramente che – scelta registica non casuale – è sempre inquadrato da solo. I figli fanno una fugace apparizione da bambini e poi da adulti nel finale. La figlia da adulta solo nel finale. Con chi li abbia fatti Jordan, questi figli, non si sa).
Questo giudizio inficia in qualche modo la figura del Michael Jordan sportivo? No, in qualche modo la rende ancora più epica, in quanto terribilmente sola, sola non per scelta, ma per un atteggiamento che poteva avere come unica conseguenza la solitudine.
Eppure questo straordinario documentario, questa straordinaria prova di storytelling, ci dovrebbe ricordare ancora di più quanto sia errato un concetto che invece è diventato quasi scontato: la vita non è sport, e applicare le categorie di uno sport alla vita è deleterio e profondamente errato.
Per citare il grande Julio Velasco, allenatore della nazionale italiana di pallavolo negli anni ’90 (gli stessi anni di The Last Dance), nello sport è normale un’alternanza di vittorie e sconfitte. Ma già parlare di “vittorie e sconfitte” nella vita… questo è un trucco semantico di cui dobbiamo liberarci.
Se si perde una partita, come abbiamo scritto prima, la si perde a regole uguali per tutti.
Se non si passa un colloquio di lavoro, o se si perde la gara per ottenere un progetto, non è affatto detto che le regole fossero uguali per tutti. E sempre per citare Velasco, questo non vuole dire credere alla teoria degli alibi, ovvero che i nostri fallimenti siano sempre da attribuire a fattori esterni incontrollabili e quindi a deresponsabilizzarci: no, è un atteggiamento opposto, ma ugualmente deleterio.
Ma cominciamo a considerare i nostri fallimenti o i risultati ottenuti non come “vittorie” o “sconfitte” (fino ad arrivare a estremi di espressioni scherzose, ma neanche troppo, come “sconfitti dalla vita”): se non si è piazzato un progetto o ottenuto un posto di lavoro, non significa avere “perso”: significa che in quel caso una serie di circostanze, tra cui forse anche un set di skill inferiore a chi era tra i candidati, ma altre situazioni al di fuori del nostro controllo, e non possiamo accusarci di essere “dei perdenti” per non poterle appunto controllare.
Set di regole precise e condizioni uguali per tutti contro vita vera. Godiamoci The Last Dance per quello che è, lodiamo Michael Jordan per essere stato uno degli sportivi, e forse il più grande uomo di sport di tutti i tempi. Ma non prendiamolo a esempio nel nostro quotidiano. Se abbiamo bisogno di un modello altrettanto manicheo, il già citato Velasco diceva che il mondo si divide in “brave e cattive persone”. A noi la scelta, ed è più difficile di quella semplice, ovvia e moralmente neutra, tra vincenti e perdenti.
(Rho, 1976) Autore dei graphic novel L’era dei Titani, Tipologie di un amore fantasma, Bugs-Gli insetti dentro di me e Warhol-L’intervista (da cui ha tratto anche una commedia teatrale) e dell’adattamento a fumetti del romanzo Uno indiviso di Alcide Pierantozzi, per cui ha vinto il Premio Boscarato 2014 come "Miglior sceneggiatore italiano". È stato finalista al Premio MIMC di Kodansha e due volte tra i vincitori del concorso internazionale di manga SMA. Ha scritto la raccolta di racconti Carni (e)strane(e) e i romanzi Il ghigno di Arlecchino (finalista al Premio Italia come miglior romanzo fantasy), Zentropia e Ride – Il gioco del custode. Attualmente sceneggia Nathan Never e Zagor per Sergio Bonelli Editore. In autunno uscirà per Mondadori il suo romanzo "Il silenzio dell'acqua-Il prezzo da pagare".